Lunedì 27 febbraio, presso la sede di Binaria – Centro commensale, si è tenuto il primo incontro sul fine vita a cura della Fondazione Fabretti nell’ambito della Scuola di Politica Renata Fonte, organizzata dalla Fondazione Benvenuti in Italia.

Che cosa significa morire altrove, lontano dal proprio paese d’origine? Cosa vuol dire garantire il diritto alla ritualità funebre nel contesto migratorio e in quale modo i decisori politici possono intervenire in questa direzione? Questi sono alcuni dei temi su cui i relatori, gli antropologi Ana Cristina Vargas, direttore scientifico della Fondazione Fabretti e docente dell’Università di Torino, e Alessandro Gusman, docente dell’Università di Torino, si sono soffermati nel corso della serata.

Il fenomeno migratorio molto spesso viene affrontato come una questione emergenziale, come un evento straordinario che irrompe e a cui bisogna cercare di far fronte in un momento preciso e definito. Questo tipo di approccio tende a mettere in ombra tutti gli aspetti più profondi dell’esistenza, come la religione, il pensiero e le rappresentazioni che ogni cultura costruisce attorno al tema del fine vita e della malattia, insieme alle riflessioni personali su questi argomenti. Questi aspetti fanno parte della vita quotidiana dei migranti, anche se spesso non vengono considerati tra le questioni più urgenti quando si parla di immigrazione.
Considerare la migrazione come un fatto strutturale e non emergenziale è una buona strada da percorrere per intraprendere un percorso che ha come meta la convivenza, il rispetto delle diverse culture nel variegato mosaico che è la società contemporanea, e non la semplice coesistenza o l’assimilazione.
Quando si affronta il tema legato al morire altrove è necessario comprendere nella riflessione questi aspetti, senza dimenticare che ogni cultura porta con sé particolari rappresentazioni sul fine vita e sulla malattia, molti e differenti modi di esternare il dolore e la sofferenza, diverse concezioni sul corpo.

In che modo può essere esternato il dolore fisico nelle altre culture? Garantire una “buona cura” significa fermarsi a pensare a quali valenze ha questo concetto per il paziente immigrato, per chi riceve assistenza, nel rispetto delle prescrizioni fornite dal suo credo religioso o delle pratiche culturali del suo paese d’origine, ugualmente anche per il fine vita.
La richiesta della famiglia del paziente induista alla struttura sanitaria di non fornire morfina al malato terminale perché il dolore fisico in questa ultima fase della vita è fondamentale per raggiungere in maniera più consapevole la morte, ma anche le pratiche islamiche di lavaggio post mortem sono soltanto alcuni esempi di pratiche religiose e rituali legate alla malattia e al fine vita. Il concetto di alterità è fondamentale per ripensare, in maniera riflessiva, alla nostra cultura, al nostro modello di cura e alle pratiche rituali, soltanto alcune delle molte possibili.

Tutelare il diritto alla ritualità funebre, densa di significato per gli individui coinvolti sia nel contesto di partenza che in quello di arrivo, significa cercare di andare incontro alle esigenze che emergono da parte delle comunità immigrate presenti sul territorio per permettere ai cari della persona scomparsa di ritualizzare la sua morte e onorarne la memoria. Per renderlo realizzabile, è necessario apportare alcune modifiche dal punto di vista legislativo ma anche pratico, nelle attività degli operatori sanitari e funerari. Fondamentale è anche la capacità da parte delle comunità immigrate di rendersi flessibili per adattarsi al contesto in cui si trovano a vivere. Le famiglie ricorrono a strategie creative per ritualizzare la morte del proprio caro, con l’aiuto talvolta dei social network, in modo da rendere partecipi in tempo reale l’insieme dei parenti, spesso inseriti in reti di relazione che attraversano i confini, anche in assenza del corpo del defunto o in attesa del suo rientro in patria.

Un’altra questione molto complessa dal punto di vista simbolico riguarda il luogo in cui decidere di collocare il corpo e in cui eseguire le pratiche di sepoltura o di collocazione delle ceneri. Il corpo diventa espressione tangibile del radicamento e la scelta del luogo spesso non coincide con il paese di origine ma con quello di arrivo, sede dei legami e dell’appartenenza che sono stati significativi per buona parte della vita del migrante. La doppia assenza del migrante, il suo essere in parte presente e in parte assente nel contesto di arrivo ma anche in quello di partenza, influisce quindi anche sulla sua decisione o su quella dei sui cari riguardo al rientro della salma in patria, luogo delle radici personali e relazionali. Tornare significherebbe ricollegarsi non soltanto idealmente ma anche fisicamente ad un luogo a cui si appartiene. Sulla scelta inversa, quella di lasciare il corpo nel paese in cui il caro è deceduto sono implicate anche altre motivazioni, per esempio economiche, legate ai costi relativi al trasporto. L’assenza fisica del corpo in alcuni contesti culturali rappresenta inoltre una questione spinosa, dal momento che se il corpo non è presente il processo di elaborazione del lutto diventa molto difficoltoso, se non impossibile, per tutte le valenze simboliche e rituali di cui è investito.

Il diritto alla ritualità funebre è rivendicato con forza dalle famiglie dei migranti morti in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa. Le vicende legate a queste morti, molto simili ai casi dei desaparecidos in America Latina, sono spettacolarizzate per le grandi cifre di decessi, ma queste morti non sono soltanto numeri: riguardano persone, sono figli, padri, madri, mogli o mariti, fratelli, cari di cui le famiglie perdono le tracce. Un’alta percentuale dei corpi ritrovati in mare non viene identificata e non giunge ai famigliari in patria. I parenti e le persone vicine al defunto restano in questo modo sospesi, in bilico, a loro non viene solamente sottratta la vita del proprio caro di cui non hanno più notizie dal giorno in cui è partito, ma anche la possibilità di ritualizzare la sua morte. La richiesta da parte delle famiglie del riconoscimento e della restituzione dei corpi dei migranti non deve rimanere un grido inascoltato, una domanda senza risposta ad una necessità umana e profonda come quella di permettere l’elaborazione di un lutto reso ancora più doloroso dall’assenza fisica del corpo. Il diritto alla ritualità nella migrazione è anche questo, coincide con la volontà di conferire senso alla perdita, per restituire dignità e individualità al defunto ma anche dare voce ad un legame e alla sua memoria.

È possibile riascoltare il podcast della serata e visualizzare il video con l’intervista ai relatori Ana Cristina Vargas e Alessandro Gusman.

Per approfondire l’argomento, consigliamo la lettura dell’articolo Morire in mare. Una riflessione sull’immigrazione e il diritto alla ritualità di Ana Cristina Vargas, pubblicato sul numero della rivista Socrem News di gennaio 2017 e il volume edito dalla Fondazione Fabretti “Gli altri addii. Morte e ritualità funebri nelle comunità immigrate del Piemonte” a cura di Alessandro Gusman.